lunedì 2 febbraio 2009

Mercoledì 4 Febbraio

QUATTRO PASSI FRA LE NUVOLE

Soggetto: Piero Tellini, Cesare Zavattini;
sceneggiatura: Giuseppe Amato, Alessandro Blasetti, Aldo De Benedetti, Piero Tellini, Cesare Zavattini;
fotografia: Vaclav Vich;
musiche: Alessandro Cicognini;
montaggio: Mario Serandrei;
scenografia: Virgilio Marchi;
interpreti: Gino Cervi (Paolo Bianchi) Giuditta Rissone (Clara Bianchi), Adriana Benetti (Maria), Guido Celano (Pasquale, fratello di Maria), Giacinto Molteni (Matteo), Aldo Silvani (Luca, padre di Maria), Margherita Seglin (Luisa, madre di Maria), Aristide Garbini (Giovanni il benzinaio), Lauro Gazzolo (controllore sul treno), Carlo Romano (Antonio, autista corriera), Paolo Bonecchi (viaggiatore);
produzione
: Giuseppe Amato per Cines;
Italia, 1942; durata: 95'

Il film Quattro passi fra le nuvole è stato per molti una lieta sorpresa, per quelli specialmente che badano al sodo, e preferiscono nel cinema un raccontino pulito e senza pretese, ma ricco di notazioni colte sul vivo, ai soliti baracconi, pieni di sfarzo pacchiano e di pretese, ma privi affatto di verità e di poesia. Non si tratta di un capolavoro, troppi difetti in Blasetti non riescono ancora a servire ad uno scopo, limitano cioè il potere evocativo di questo regista che, come tutti sanno, è tra i nostri migliori. Ma il soggetto una volta tanto non convenzionale, e la naturale affettuosità di Blasetti, ci hanno dato qualcosa che è molto gradevole e accettabile. L’avventura si svolge attorno ad un commesso viaggiatore che, durante il suo solito giro d’affari, s’incontra con una ragazza, che dovrà avere un bambino, e che abbandonata torna ai genitori, gente rozza e molto attaccata all’onore familiare. Il commesso viaggiatore si impietosisce e aiuta la ragazza con un piccolo trucco ad essere accolta amorevolmente dai suoi. Poi egli riprenderà la solita vita, piena di incertezze e fatiche. La novità dell’assunto psicologico consiste nell’avere il regista abbandonato non solo il raccontino a lieto fine, ma addirittura la retorica del protagonista bello e fatale. Cervi è un uomo qualunque, che vive con coraggio e dignità umana, una vita piuttosto dura e seccante. Ma questa vita non ha inaridito per niente in lui una sua samplice capacità di affetto e di bontà naturale. Basta il contatto con una ragazza carina ed infelice, bastano alcune ore passate in campagna per farlo ritornare lieto e fiducioso, per fargli dimenticare il peso della famiglia e le piccole ma sgradevolissime difficoltà della vita. Il film nella prima parte è bellissimo, tutta la sequenza che si svolge in ferrovia è vista con insolita precisione e novità di osservazione. Le scene poi, la prima e l’ultima con quei caseggiati urbani, con la moglie intristita, con quelle albe che vedono le fatiche degli uomini chiusi nelle grandi città: le loro levatacce ed il loro coraggio, sono qualcosa che va al di là del solito racconto cinematografico per toccare una zona più sensibile, con riflessi addirittura sociali. Peccato che la seconda parte del film, quella che si svolge in campagna abbia molto meno naturalezza. È strano, e l’abbiamo già notato altre volte, che in un paese a sfondo rurale come il nostro, in cui l’economia agraria assorbe il cinquanta per cento degli abitanti, i nostri registi non sappiano guardare con naturalezza la campagna. Pare che nessuno di essi abbia familiarità con dei veri campi e degli autentici contadini.
Gino Cervi è il protagonista, ed è molto bravo. Secondo noi, questa sua interpretazione passa in prima linea nel ricordo tra altre che l’hanno reso giustamente famoso. A certi punti, e non è piccolo elogio anche per la somiglianza delle situazioni umane, ci ha fatto ricordare il protagonista di un famoso film di Vidor di molti anni fa. Quel film si intitola La folla e racconta la dolorosa esistenza di un piccolo-borghese carico di preoccupazioni e tartassato dalla sfortuna.

Pietro Bianchi, L’occhio di vetro - Il cinema degli anni 1940-1943, Ediz. Il Formichiere, 1978


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